L’ ANTICA STORIA DEL TARTUFO

La storia del tartufo affonda le sue radici in epoche talmente remote da rendere difficile distinguere ciò che è riconducibile alla realtà da ciò che è frutto di leggenda o della fantasia

L’origine della parola tartufo fu per molto tempo dibattuta dai linguisti che giunsero alla conclusione, non definitiva, che derivasse da territùfru, volgarizzazione del tardo latino terrae tufer (escrescenza della terra), dove tufer sarebbe usato al posto di tuber.

Le prime testimonianze scritte risalgono al 1600-1700 a.C, ai tempi dei Sumeri e del patriarca Giacobbe. Gli antichi Sumeri utilizzavano il tartufo mischiandolo ad altri vegetali quali orzo, ceci, lenticchie e senape, mentre si dice che gli antichi Ateniesi lo adorassero al punto da conferire la cittadinanza ai figli di Cherippo, per aver inventato una nuova ricetta.

Le prime notizie certe sul tartufo compaiono nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Nel I secolo d.C. il filosofo greco Plutarco di Cheronea trasmise l’idea che il magnifico fungo nascesse dall’azione composta dell’acqua, del calore e dei fulmini.storia del tartufo Da questa teoria molti poeti, tra cui il Giovenale, spiegarono che l’origine del prezioso fungo si deve ad un fulmine scagliato da Giove nelle vicinanze di una quercia (albero ritenuto sacro al padre degli dèi). Giove era anche famoso per il suo portentoso dinamismo sessuale. Ecco perché al tartufo, da sempre, si sono riconosciute proprietà afrodisiache. Il medico Galeno si espresse in questo modo: “il tartufo è molto nutriente e può disporre della voluttà”.

Molto probabilmente il loro “tuber terrae” non era il profumato tartufo di cui noi oggi ci occupiamo, bensì la “terfezia Leanis” (Terfezia Arenaria) o specie consimili. Esse abbondavano, allora più di oggi, in Africa Settentrionale ed in Asia Occidentale, raggiungendo il peso di tre-quattro chilogrammi; è comprensibile che fossero molto apprezzate (al punto da essere chiamate “il cibo degli dei”), visto che a quei tempi erano del tutto sconosciuti i tuberi di origine americana, quali la patata ed i tapinambur.

Il Tuber magnatum Pico non entrò mai a far parte delle raffinatissime ricette romane, nonostante Roma ebbe per imperatore anche un cittadino albese, Publio Elvio Pertinace. I tartufi che deliziavano i palati dei patrizi romani erano scadenti solo nella qualità, perché, per quanto riguardava il prezzo, questo era salatissimo. Lo scrittore Apicio nel suo “De Re Coquinaria” inserì sei ricette al tartufo nel VII libro, quello che trattava le pietanze più costose.

Il tartufo evitò per tutto il Medioevo le mense frugali dell’uomo e rimase il cibo di lupi, volpi, tassi, maiali, cinghiali e topi. Il Rinascimento rilanciò il gusto della buona tavola ed il tartufo si mise in marcia per conquistare il primo posto tra le pietanze più raffinate. Il tartufo nero pregiato apparve sulle mense dei signori francesi tra il XIV ed il XV secolo, mentre in Italia in quel periodo si stava affermando il tartufo bianco.

Nel ‘700, il tartufo Piemontese era considerato presso tutte le Corti europee una prelibatezza.
La ricerca del tartufo costituiva un divertimento di palazzo, per cui gli ospiti e gli ambasciatori stranieri in visita a Torino erano invitati ad assistervi.
Da qui forse nasce l’usanza di utilizzare per la cerca un animale elegante come il cane da tartufo al posto del maiale, utilizzato soprattutto in Francia.
Tra la fine del XVII ed inizio del XVIII sec., i sovrani Italiani Vittorio Amedeo II e Carlo Emanuele III si dilettavano nell’organizzare vere e proprie battute di raccolta. Un episodio interessante riguarda una spedizione tartufiera avvenuta nel 1751 ed organizzata da Carlo Emanuele III presso la Casa Reale d’Inghilterra. Durante la giornata, furono trovati diversi tartufi, ma erano di valore estremamente inferiore rispetto a quelli Piemontesi.

Istoria-del-tartufol Conte Camillo Benso di Cavour, durante la sua attività politica, utilizzò il tartufo quale mezzo diplomatico, il compositore Gioacchino Rossini lo definì “Il Mozart dei funghi”, mentre Lord Byron lo teneva sulla scrivania perché il profumo lo aiutasse a destare la sua creatività e Alexandre Dumas lo definì il Sancta Santorum della tavola.

Nel 1780 venne pubblicato a Milano il primo libro riguardante il Tartufo Bianco d’Alba, battezzato col nome di Tuber magnatum Pico (Magnatum – ossia dei “magnati”, per persone abbienti, mentre Pico si riferisce al piemontese Vittorio Pico, il primo studioso che si occupò della sua classificazione).
Un naturalista dell’orto botanico di Pavia, il Dottor Carlo Vittadini, pubblicò a Milano nel 1831 la “Monographia Tuberacearum”, la prima opera che gettò le basi dell’idnologia, la scienza che si occupa dello studio dei tartufi, descrivendone 51 specie diverse.

Lo studio dei funghi ipogei fu in seguito approfondito dai ricercatori italiani ed attualmente in Italia, ed in particolare in Piemonte, risiedono i migliori centri di studio.

Oggi abbiamo la possibilità di coltivare i tartufi.

Nell’era della globalizzazione era inevitabile che si aprissero nuovi orizzonti e quindi nuovi mercati, ragion per cui la domanda è arrivata a superare abbondantemente l’offerta richiedendo una maggiore produzione.La coltivazione dei tartufi in Italia è cominciata verso la metà degli anni Ottanta del secolo scorso, limitata però solo ad alcune specie: il tartufo nero pregiato, il tartufo nero estivo, il tartufo uncinato e il tartufo brumale. È grazie a quei primi impianti, che a volte riuscivano e a volte un po’ meno per mancanza di una base sperimentale solida, che hanno portato la tartuficoltura a una realtà imprenditoriale significativa permettendo nel corso degli anni non solo di raggiungere dei risultati economici concreti, ma anche di perfezionare le tecniche colturali dovute agli errori iniziali.Oggi la vendita di tartufi diventa sempre più un settore di nicchia, dal momento che la nascita del fungo dipende da tantissimi agenti atmosferici che l’ uomo non riesce a controllare, nemmeno attraverso la coltivazione diretta.
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